lunedì 25 febbraio 2013

Avvocati: sì al patto di quota lite .


La  disposizione di cui al comma 4 dell'articolo 13 della Legge 247/2012 appare ictu oculi foriera di numerosi dubbi interpretativi. 

Infatti, non è mancato chi, in sede di prima lettura della novella, ha ritenuto che il comma 4 così come formulato determina le reviviscenza del divieto del patto di quota lite.
Onde sciogliere tali dubbi interpretativi, appare opportuno ripercorrere le tappe evolutive della controversa fattispecie del patto di quota lite e poi inserire la nuova disposizione nella cornice della novella 247/2012.
Il divieto del patto di quota lite era in origine previsto dall’articolo 2233 comma 3 Cc che così statuiva:. “Gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni”.
La riforma Bersani.E’ la Legge Bersani che nel 2006 novella il tenore del terzo comma articolo 2233 Cc, che ad oggi recita: “sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”.
In tal modo, il divieto assoluto di pattuizioni relative a beni che formano oggetto dell’attività espletata dall’avvocato è stato sostituito con una previsione generale di ammissibilità dei patti tra avvocati e clienti relativi ai compensi professionali.
Non viene, dunque, espressamente soppresso il divieto del patto di quota lite, ma vengono ammesse in via generale le pattuizioni relative ai compensi professionali, condizionandone la validità alla redazione delle stesse in forma scritta.
Essendo venuto meno il divieto esplicito e preciso concernente i patti relativi a beni che formano oggetto della controversia, tra i patti ben può farsi rientrare il patto di quota lite e quindi i patti sui compensi parametrati ai risultati da conseguire.
La forma scritta.Ne consegue che, come precisato dal Consiglio Nazionale Forense, dal punto di vista civilistico, il patto è valido se rispetta l’onere della forma scritta: esso ha effetti solo tra le parti, non può essere opposto ai terzi, quali la controparte del cliente, neppure in giudizio, né può essere richiesto al Giudice che si attenga al contenuto della pattuizione, in sede di liquidazione del compenso e delle spese.
Il divieto di cessione dei crediti.Nonostante la novella apportata dal decreto Bersani all’articolo 2233 comma 3 Cc, rimane in vigore il divieto generale di cessione di diritti e crediti litigiosi previsto dall’articolo 1261 Cc, di cui il divieto di patto di quota lite costituiva un’applicazione peculiare.
L’articolo 1261 Cc fa divieto, oltre che ai magistrati, ai cancellieri, agli ufficiali giudiziari, ai notai, anche agli avvocati, patrocinatori o procuratori di “rendersi cessionari di diritti sui quali è sorta contestazione davanti all'autorità giudiziaria (...) nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni, sotto pena di nullità e dei danni”.
I patti con cui si cedono diritti giudizialmente contestati all'avvocato sono nulli e rimangono tali anche a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina di cui all’articolo 2233 comma 3 Cc. Ciò in ragione di principi di livello superiore, legati alla peculiarità della funzione o dell’ufficio esercitati dall’operatore di giustizia nel quadro costituzionale delineato dall’articolo 54 comma 2 della Costituzione, che impone disciplina e onore nell’esercizio delle funzioni pubbliche.
La modifica al codice deontologico.
Pare opportuno evidenziare come la novella dell’articolo 2233 comma 3 Cc abbia reso necessaria anche una modifica del Codice deontologico forense: l’articolo 45, rubricato appunto “accordi sulla definizione del compenso”, consente all’avvocato la pattuizione con il cliente di compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, “fermo il divieto dell’articolo 1261 Cc e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta, fermo il principio disposto dall’articolo 2233 Cc”.
Occorre a questo punto chiedersi come in questo contesto normativo vada inserito il comma 4 articolo 13 Legge 247/2012, il quale, come anticipato, vieta i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.
Validi i patti sui compensi parametrati ai risultati.Se è vero che il patto di quota lite è la pattuizione con cui avvocato e cliente convengono che, quale compenso per l’opera prestata, venga riconosciuta dal cliente all’avvocato una percentuale del bene controverso o del valore dello stesso e, posto che il comma 3 articolo 13 della novella ammette espressamente la pattuizione a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, fermo restando l’onere della forma scritta ex articolo 2233 comma 3 Cc, il patto vietato dal comma considerazione non è il patto di quota lite, ma un patto che determini il compenso pro quota con specifico riferimento al bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa. In altri termini, rimangono validi i patti sui compensi parametrati ai risultati conseguiti, aventi ad oggetto, non una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, ma una percentuale del valore del bene controverso o del bene stesso. Si comprende, dunque, come diverso sia l’oggetto tra il patto vietato ex articolo 13 comma 4 Legge 247/2012 e il patto di quota lite inteso come sopra.
Ciò risulta espressamente confermato dal comma 3 articolo 13 che tra i possibili contenuti della pattuizione tra cliente e avvocato fa rientrare anche la percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione. Alla luce di una lettura interpretativa sistematica dell’intera novella, una tale previsione sarebbe del tutto incoerente nonché inutile se il comma successivo della novella vietasse tout court il patto di quota lite, quale pattuizione con cui avvocato e cliente convengono che, quale compenso per l’opera prestata, venga riconosciuta dal cliente all’avvocato una percentuale del bene controverso o del valore dello stesso.
Sembra potersi per contro ragionevolmente concludere nel senso che il comma 4 articolo 13 Legge 247/2012 si limiti a ribadire il divieto di cui all’articolo 1261 Cc Ne deriva, quindi che in base alla normativa vigente, anche a seguito della novella dell’ordinamento forense, continuano ad esistere due tipi di patti di quota lite: il primo, pienamente legittimo, con il quale si stabilisce un compenso correlato al risultato pratico dell'attività svolta e, comunque, in ragione di una percentuale sul valore dei beni o degli interessi litigiosi (tale patto deve essere redatto per iscritto pena nullità ex articolo 2233 comma 3 Cc); il secondo, nullo, nella misura in cui realizzi, in via diretta o indiretta, la cessione del credito o del bene litigioso, contravvenendo, dunque, al divieto posto dall'articolo 1261 Cc
In caso di mancato accordo. Il comma 6 articolo 13 Legge 247/2012 regola il funzionamento del secondo criterio di determinazione dei compensi professionali individuato dall’articolo 2233 Cc.
Rispettando l’ordine gerarchico scelto dalla normativa codicistica, la novella dell’ordinamento forense opta per l’applicazione dei parametri ministeriali in tema:
- quando all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta,
- in ogni caso di mancata determinazione consensuale,
-in caso di liquidazione giudiziale dei compensi,
- nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell’interesse dei terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge.
Tali parametri vengono indicati nel decreto emanato dal ministro della Giustizia, su proposta del Cnf, ogni due anni, ai sensi dell’articolo 1, comma attuazione della legge 247/2012. Le finalità della fissazione di tali parametri sono espressamente individuate al comma 7 nel favorire la trasparenza nella determinazione dei compensi dovuti per le prestazioni professionali e l’unitarietà e la semplicità nella determinazione dei compensi.
La novella dell’ordinamento forense si inserisce nel solco recentemente tracciato dalla Legge 27/2012 che, all’articolo 9 comma 2, con riferimento a tutte le professioni regolamentate, ha disposto che nel caso di liquidazione giudiziale, il compenso del professionista venga determinato con riferimento ai parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante.
Il rinvio ai parametri.In attuazione di tale disposizione, il Dm 140/2012 ha determinato i parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal ministero della Giustizia: si tratta dei parametri ad oggi vigenti per la determinazione giudiziale dei compensi.
L’articolo 13 comma 6 Legge 247/2012, in ragione del rango di norma speciale cui assurge, riferendosi esclusivamente alla categoria professionale forense, rinvia a parametri ministeriali ancora da adottarsi che, però, una volta adottati con decreto ministeriale, si sostituiranno a quelli individuati con Dm 140/2012, derogandoli.
Da ciò si desume che, fino a quando i decreti di cui all’articolo 1 comma 3 Legge 247/2012 non saranno adottati, continuano a trovare applicazione i parametri ministeriali fissati con Dm 140/2012 per la determinazione giudiziale dei compensi professionali.
Quanto alle altre professioni regolamentate, continua ad applicarsi la disciplina contenuta nella legge 27/2012.
Il ruolo del Consiglio dell’Ordine.Il comma 9 articolo 13 della novella prevede che in mancanza di accordo tra avvocato e cliente, ciascuno di essi può rivolgersi al consiglio dell’ordine affinché esperisca un tentativo di conciliazione.
In mancanza di un accordo il Consiglio, su richiesta dell’iscritto, può rilasciare un parere sulla congruità della pretesa dell’avvocato in relazione all’opera prestata.
Stante la più volte evidenziata specialità della disciplina contenuta nella Legge 247/2012 rispetto a quella generale di cui alla Legge 27/2012, la novella sull’ordinamento forense recupera i ruoli conciliativo e consultivo assolti da sempre dal Consiglio dell’Ordine, che la legge generale sulle professioni regolamentate letta alla luce della relativa relazione illustrativa aveva implicitamente abrogato.
Sembra chiaro che la congruità della pretesa dell’avvocato in relazione all’opera prestata deve essere valutata dal Consiglio dell’Ordine con riferimento ai suddetti parametri ministeriali, essendo stato abolito qualsivoglia riferimento ai sistemi tariffari.
Torna l’ingiunzione di pagamento.
Il recupero della funzione consultiva del Consiglio dell’Ordine in sede di verifica della congruità della pretesa dell’Avvocato, nei soli casi di mancanza del sovrano accordo con il cliente, determina altresì la reviviscenza del tradizionale strumento di recupero dei crediti professionali in via ingiuntiva di cui agli artt. 633 e 636 Cpc. A ben vedere, come già evidenziato, la legge 27/2012 e la relativa relazione illustrativa sembrano aver escluso la necessità del parere della «associazione professionale» cui si riferisce l’articolo 2233 Cc per la determinazione giudiziale dei compensi, in quanto il mancato richiamo ad esso da parte della legge 27/2012 configura una sua abrogazione implicita. Venendo meno il ruolo consultivo dell’associazione professionale, il cui espletamento è necessario ex articolo 636 c.p.c. ed essendo venuto meno il riferimento ai sistemi tariffari, si è esclusa l’esperibilità del procedimento d’ingiunzione ex articolo 633 n. 3 per i crediti riguardanti compensi spettanti ad appartenenti a professioni regolamentate nei sistemi ordinistici.
Oggi, per contro, alla luce del tenore dell’articolo 13 comma 9 sembra potersi recuperare, dunque, l’operatività del procedimento monitorio almeno con riferimento alla categoria forense.
La disciplina delle spese.Ai sensi del comma 10 articolo 13, oltre al compenso per la prestazione professionale, all’avvocato sono dovuti, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale:
- il rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell’interesse del cliente,
- una somma per il rimborso delle spese forfetarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive.

Solidarietà in caso di definizione della controversia.

Nulla di nuovo rispetto al testo precedente della legge professionale aggiunge il comma 8 articolo 13 legge 247/2012: “quando una controversia oggetto di procedimento giudiziale o arbitrale viene definita mediante accordi presi in qualsiasi forma, le parti sono solidalmente tenute al pagamento dei compensi e dei rimborsi delle spese a tutti gli avvocati costituiti che hanno prestato la loro attività professionale negli ultimi tre anni e che risultino ancora creditori, salvo espressa rinuncia al beneficio della solidarietà”.  
( Per gentile concessione dell'Avvocato Antonietta Savino, pubblicato in " Guide Legali" )

martedì 5 febbraio 2013

Firma del Giudice illeggibile ? Decreto ingiuntivo nullo


Il Tribunale di Napoli ha sentenziato in maniera originale in tema di qualità essenziali del decreto ingiuntivo.
Nella sentenza n. 864 del 2006, l'Ufficio Giudiziario partenopeo , in persona del Giudice Monocratico Dottor Augusto Tatangelo, ha sancito la nullità del decreto ingiuntivo privo di sottoscrizione leggibile, ai sensi dell'art. 161 c.p.c. 
Nella fattispecie concreta il giudice Tatangelo ha accolto l'opposizione all'esecuzione proposta con atto di citazione avverso l'atto di precetto per il pagamento dell'importo di 9000,00 euro circa intimato sulla base del decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Reggio Emilia.
Il provvedimento in questione risultava infatti difettoso di valida sottoscrizione, essendo la stessa assolutamente illeggibile e non risultando in tutto il corpo dell'atto in alcun modo indicato o comunque ricavabile , il nome del Giudice emittente .

Il Tribunale ha di conseguenza affermato la nullità insanabile di detto decreto ingiuntivo. 
Il giudice partenopeo ha poi considerato che tale nullità è deducibile, ai sensi dell'art. 161 c.p.c., fuori dei limiti e delle regole dei mezzi di impugnazione e che essa certamente può essere fatta valere anche in sede di opposizione all'esecuzione, trattandosi   del resto di una contestazione attinente alla stessa esistenza del titolo esecutivo e quindi del diritto di procedere ad esecuzione forzata.
Più recentemente il principio è stato ribadito dal Tribunale di Torino, sezione VI civile del 31/7/08:" In tema di provvedimenti del giudice, nella fattispecie di decretoingiuntivo, laddove venga apposta sull'atto da parte dell'estensore unafirma sigliforme di ardua decifrazione e non vengano esplicitate in alcuna parte dell'atto stesso le generalità dell'estensore, deve essere dichiarata la nullità, ai sensi dell'art. 161 cpv. c.p.c." 
La Giurisprudenza di legittimità prevede , con riguardo alla sentenza che "la presunzione di identità tra l'autore del segno grafico indistinguibile, utilizzato e la persona del giudice " viene inficiata solo quando tra il tratto grafico e l'indicazione nominativa del giudice contenuta nell'atto " non sussistano adeguati elementi di collegamento " ( Cass . Sez. prima, 24 luglio 2003, n° 11471)  
(Commento a cura della Dottoressa Alessia D'Antonio)